CONTABILITÀ DEI COSTI TRADIZIONALI: LIMITI E DISTORSIONI

Tempo di lettura: 6 minuti

Autore: Luigi Brusa

Che cosa s’intende per contabilità dei costi tradizionale? Prima ancora, che cosa è la contabilità dei costi?

Per vederne limiti e distorsioni è bene innanzitutto chiarire questi due punti.

Limiti e distorsioni della contabilità dei costi tradizionali

Cosa si intende per contabilità dei costi

In primo luogo, contabilità dei costi (o cost accounting) è espressione di significato non univoco. Intesa in senso ampio, può voler dire due cose:

a) calcolo del costo di prodotto (a preventivo, in base a certe ipotesi di gestione, oppure a consuntivo); in questo caso l’oggetto di calcolo è l’unità di prodotto (di serie oppure la singola commessa);

b) determinazione dei costi, ricavi e risultati economici dei vari prodotti (a consuntivo e periodicamente); in tal caso, oggetto di calcolo sono singoli prodotti o loro famiglie, ma di essi vengono periodicamente determinati costi, ricavi e risultati economici corrispondenti ai volumi di vendita.

In quest’ultima ipotesi, il sistema di rilevazioni può essere tenuto extra-contabilmente, oppure contabilmente (in partita doppia).

Per una piccola impresa, con risorse finanziarie e organizzative limitate, è normale che la contabilità dei costi (quando c’è) sia di tipo a), piuttosto che di tipo b). Si tratta cioè del calcolo del costo unitario di prodotto.

Cosa si intende per contabilità tradizionale

Ciò precisato, per contabilità tradizionale s’intende il calcolo del costo di prodotto mediante un approccio semplificato, che riflette questo modello di ragionamento:

  • da un punto di vista economico, i prodotti, per la loro realizzazione, richiedono risorse di vario tipo: materie prime, mano d’opera diretta, personale indiretto di produzione, commerciale, amministrativo, utenze, macchinari, impianti, ecc. (ci riferiamo solo ai costi di gestione operativa);
  • da un punto di vista contabile, i costi di tali risorse vengono imputati ai prodotti mediante misurazione della quantità impiegata (costi diretti) o mediante ripartizione (costi indiretti), ma in ogni caso senza essere prima destinati a reparti, uffici, ecc. dove le risorse stesse vengono impiegate, né a specifiche attività (produttive, di supporto, ecc.) svolte da tali unità della struttura organizzativa.

Tale ragionamento può essere schematizzato così:

Immagine che rappresenta la contabilità dei costi

Questo schema può sembrare il più naturale del mondo, ma nasconde semplificazioni a volte grossolane per i costi indiretti.

Esso ignora il reale svolgimento della gestione, che consiste nell’esecuzione di specifiche attività, cioè insiemi di operazioni elementari, effettuate in determinate articolazioni della struttura organizzativa (reparti, uffici, ecc.).

Ignorando tale realtà gestionale si usa un approccio contabile non supportato da un adeguato ragionamento economico.

In parole semplici, dire che un prodotto provoca il sostenimento di costi indiretti significa poco per i costi indiretti industriali e ancora di meno per quelli commerciali e amministrativi. Talora non significa niente, perché si tratta di costi così generali che il loro nesso con i prodotti è nullo.

Si pensi ad esempio agli stipendi del personale amministrativo, che non lavora per specifici prodotti, ma per l’azienda nel suo insieme, ad esempio per la tenuta della contabilità e gli adempimenti civilistico-fiscali.

Un orientamento molto diffuso

Eppure, resiste un orientamento molto diffuso, consistente nell’imputare i costi indiretti ai prodotti in proporzione alle ore di lavoro diretto, oppure alle ore-macchina, oppure in base ad altri criteri “volumetrici” (cioè espressivi di un volume di produzione).

Alla domanda “perché costi non ricollegabili ai prodotti con parametri oggettivi vengono imputati in base alle ore o criteri simili ?”, la risposta è: “perché il peso delle ore sui costi aziendali è ingente”, oppure, più semplicemente, “perché le ore le sappiamo facilmente, quindi usiamole”.

I limiti di tale approccio

La debolezza di questo approccio è evidente: infatti, ignora o sottovaluta il principio che è alla base di tutta la contabilità dei costi, e cioè il “principio causale”, che suona sempre così: i costi vanno imputati ai prodotti in base alla causa che li ha determinati.

Se tale causa (o driver, come si usa dire) non risiede nei prodotti, va ricercata appositamente. La teoria e la prassi da molti decenni hanno dato risposte affidabili a questa preoccupazione, a cui accenneremo tra breve.

Per capire la debolezza dell’approccio semplificato, si pensi all’imputazione di costi indiretti (salari di mano d’opera indiretta, stipendi, ammortamenti, utenze, ecc.) sostenuti per attività di supporto come la messa a punto delle macchine, i trasporti interni, la gestione ordini fornitori e clienti, ecc.

Ad esempio, i costi di attrezzaggio delle macchine dipendono dal numero di lotti in produzione (e dal loro tempo di esecuzione), non dalle ore di lavoro diretto occorrenti per i prodotti.

Se il prodotto A assorbe la metà delle ore di lavoro diretto del prodotto B, ma richiede un numero di attrezzaggi pari a quest’ultimo, la contabilità tradizionale lo carica di costi indiretti pari a metà del carico di B, mentre invece i due prodotti ne assorbono lo stesso ammontare.

Esempio numerico

  • prodotto A: quantità 1.000 unità nel periodo, a cui corrispondono 10.000 ore di lavoro diretto;
  • prodotto B: quantità 1.000 unità nel periodo, a cui corrispondono 20.000 ore di lavoro diretto;
  • costi indiretti di attrezzaggio da imputare: 1.000.000 €;
  • lotti in produzione nel periodo: 5 lotti per A e altrettanti per B (con durata di attrezzaggio uguale).

Con l’approccio più tradizionale i costi dell’attività di attrezzaggio vengono ripartiti così:

  • prodotto A: € 1.000.000 x 10.000/30.000 =  333 €  (costo unitario = 333 € circa)
  • prodotto B: € 1.000.000 x 20.000/30.000 =  666 € (costo unitario = 666 € circa)

Con il metodo basato sui veri driver, invece, si ha che:

  • prodotto A: € 1.000.000 x 5/10 =  000 € (costo unitario = 500 €)
  • prodotto B: € 1.000.000 x 5/10 =  000 €  (costo unitario = 500 €)

cioè lo stesso costo, avendo richiesto entrambi i prodotti la stessa quantità di risorse indirette.

La conseguenza negativa dell’approccio tradizionale all’addebito dei costi indiretti consiste tipicamente in un fenomeno noto come sovvenzioni incrociate.

Prodotti indebitamente alleggeriti di costi indiretti che competerebbero loro risultano relativamente redditizi, mentre altri, al contrario, sono gravati da un carico di costi indiretti fittizio, che li penalizza.

Così, c’è il rischio che i primi vengano spinti e i secondi ridimensionati o tolti dalla gamma.

Due metodi per rimediare alle distorsioni

I rimedi a tali distorsioni ci sono, anche se richiedono un livello di organizzazione spesso precluso alle piccole imprese.

Si tratta essenzialmente di due metodi che rappresentano altrettante tappe evolutive del percorso di perfezionamento della contabilità dei costi:

  • la contabilità per centri di costo (centri di costo = unità organizzative della struttura);
  • la contabilità basata sulle attività o Activity Based Costing o ABC (attività = insieme di operazioni elementari svolte nei centri di costo).

Qui non si entra nel merito dei due approcci, ma ci si limita a schematizzarne:

  1. la logica economica;
  2. lo svolgimento contabile (come già fatto sopra per la contabilità tradizionale).

Contabilità per centri di costo

Immagine che rappresenta la contabilità dei costi per centri di costo

Activity Based Costing

Immagine che rappresenta la contabilità dei costi per activity based costing

L’ABC è un affinamento della contabilità per centri di costo: infatti le attività sono gruppi di operazioni svolte nei centri. In tal modo ha un grado di analisi e di attendibilità maggiore.

Nell’esempio di prima, viene identificata l’attività di attrezzaggio macchine, a cui sono imputati i costi di lavoro indiretto, ammortamenti attrezzature, utenze, ecc., dopo di che si procede all’addebito del loro totale ai prodotti in base al driver appropriato.

Come detto, il grado di organizzazione mediamente disponibile nelle piccole imprese può ostacolare fortemente l’adozione di metodi evoluti. Spesso dotarsi di una contabilità tradizionale o semplificata, tipicamente basata su uno (o pochi) driver “volumetrici”, come le ore di lavoro diretto, è già un grosso passo avanti.

Ciò è tanto più accettabile:

  • quanto minore è il peso % dei costi indiretti (se sono pochi punti percentuali del totale dei costi, non vale la pena di complicarsi la vita);
  • quanto più tempo e attenzione si dedica all’interpretazione dei valori della contabilità dei costi: questi ultimi, se presi come vengono fuori dai calcoli e usati tali e quali nei processi decisionali (ad esempio nella formulazione dei prezzi di vendita, oppure nella scelta del mix dei prodotti) comportano il rischio di grosse cantonate. Al riguardo si tenga presente che i costi indiretti non solo hanno driver problematici rispetto ai prodotti, ma sono in genere fissi rispetto a variazioni di volume.

Può costituire un’accettabile alternativa a metodologie più evolute.

Considerazioni finali

Quindi, in definitiva, e a parziale consolazione di chi non può permettersi di meglio, anche una contabilità tradizionale, purchè accurata:

  • nella determinazione dei costi diretti;
  • nel calcolo dei costi indiretti totali;
  • nella misurazione delle ore di lavoro diretto;
  • nell’interpretazione dei risultati finali.

Non si dimentichi mai che la contabilità orienta le decisioni, non le fa prendere automaticamente. Questo principio vale non solo per la contabilità semplificata, ma anche per le contabilità più evolute, come quella per centri di costo e per l’Activity Based Costing.

Tutto interessante, ma … in pratica come si fa?

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Autore Luigi Brusa

Luigi Brusa

Autore di numerosi testi sui sistemi di controllo e professore emerito presso Università degli Studi di Torino.

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